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Italiana

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«Il banditismo sociale e il millenarismo – le forme più primitive di riforma e di rivoluzione – storicamente vanno di pari passo».

[Eric J. Hobsbawm, I banditi]

 

Citazione in esergo di “Italiana”

«Bisogna pur concedere qualche cosa a quelli che sono in basso, ai presenti, a quelli che sudano il loro pane, ai miserabili. Perciò diamogli da bere le leggende, le chimere, l’immortalità, il paradiso, le stelle».

[Victor Hugo, I miserabili]

 

 

Detto questo, è pur sempre un romanzo[1]. Il dimostrativo si riferisce alle fonti documentarie che inverano il contesto nel quale la vicenda narrata si espande come un fiume in piena e consente di definire storica la narrazione. Solo Giuseppe Catozzella poteva pensare di riprendere un genere che ebbe i suoi più illustri rappresentanti nel XIX secolo e che oggi mi pare poco bazzicato, se non altro per la fatica che comporta e per la difficoltà di reperire lettori capaci di attenzione e sapienza storica. Tutti abbiamo poco tempo per riflettere, ma ne abbiamo di bastante per seguire l’avventurosa vicenda di Maria Oliverio (Ciccilla), una brigantessa calabrese che sembra abbia dato filo da torcere ai suoi segugi piemontesi negli anni immediatamente successivi all’unità d’Italia. Circa un ventennio di storia nazionale viene vissuto, letto e interpretato da una donna che, suo malgrado, ne fu testimone, vittima e protagonista. Catozzella le dà voce perché è compito di un romanziere dare voce a chi non ce l’ha e non l’ha mai avuta, ma anche e soprattutto per creare un mito, unico genere di narrazione capace di generare identità e speranza, speranza di libertà nella fattispecie, sia pure entro un vagheggiamento che prelude all’anarchismo libertario. Un ideale che fa di Maria Oliverio un’eroina romantica bella di fama e di sventura. La tendenza al favolistico, che è uno dei tratti della produzione letteraria dello scrittore, consentirebbe di analizzare il romanzo alla luce del funzionalismo di Propp senza tradirne lo spirito, benché il modello letterario di riferimento sia il vasto appendicismo ottocentesco che ebbe nella produzione di Alexandre Dumas una delle massime espressioni. Mi ci fa pensare il personaggio di Teresa, l’antagonista, rappresentata come una vera incarnazione del male. Il manicheismo è tipico delle semplificazioni narrative del romanzo popolare, del feuilleton che con la favola di magia ha proprio questo in comune, la tendenza a rappresentare il male come contrapposto al bene, per fini didascalici, direi, considerando il pubblico al quale è rivolto, i bambini nel caso della favola, il lettore illetterato in quello del romanzo d’appendice. La dicotomia si ripresenta puntuale in tutti i generi “popolari” della contemporaneità quali, ad esempio, le telenovele o le seguitissime serie. Ho motivi intrinseci per tal genere di argomentazione. Dalla quale deduco che Dumas sta a Robin Hood come Catozzella sta a Ciccilla. Se è vero che entrambi i personaggi ebbero un fondamento storico, è altresì vero che il loro mito rinvia alla necessità di un ragguaglio che ascolti le ragioni dei vinti e degli sconfitti. Quando gli storici non lo fanno o non lo fanno a sufficienza, perché è forse vero che la storia la scrivono sempre e soltanto i vincitori, l’empatia dello scrittore va oltre la storia ufficiale quasi a voler compiere un atto di giustizia postuma.

A costo di sembrare pedante, allargherei la visuale fino a includere una tesi apparentemente eccentrica, ma certamente degna di attenzione, se non altro perché proveniente da uno storico di sicura competenza. Alludo a due interessantissimi saggi di Eric J. Hobsbawn, I ribelli e I banditi, entrambi pubblicati in Italia da Einaudi rispettivamente nel 1966 e nel 1971. Intanto farei riflettere sulla circostanza che la presenza delle donne nelle raffazzonate armate contadine è tutt’altro che rara. Lo storico inglese ne cita un bel po’. In secondo luogo, il brigantaggio è fenomeno antico e non di esclusivo retaggio italico. Nel confrontare molteplici casi di bande armate nello spazio e nel tempo Hobsbawn elabora il concetto di “banditismo sociale” che, a mio avviso, ben descrive anche le masnade calabresi di Catozzella e di altri da lui stesso ricordati[2]. Ecco cosa scrive l’autore de Il secolo breve:

Il punto essenziale, per quanto riguarda i banditi sociali, è il fatto che essi sono fuorilegge rurali, ritenuti criminali dal signore o dall’autorità statale, ma che pure restano all’interno della società contadina e sono considerati dalla loro gente eroi, campioni, vendicatori, combattenti per la giustizia, persino capi di movimenti di liberazione e comunque uomini degni di ammirazione, aiuto e appoggio[3]

Il brigantaggio meridionale del quinquennio postunitario è delineabile esattamente in questi termini, benché occorra precisare che il movimento di liberazione di cui le bande furono espressione ebbe un carattere prepolitico e confusamente reazionario, se è vero che a sostenerlo per qualche tempo, anche e soprattutto in termini finanziari, furono gli stessi Borbone in esilio, oltre al Papato e a un nutrito gruppo di fanatici nostalgici (spagnoli, francesi, prussiani, austriaci) dell’Ancien Régime. Per combattere ci vogliono armi e munizioni in grande quantità; sarebbe poco credibile che i briganti nostrani ne possedessero a sufficienza per fronteggiare un esercito. E tuttavia non è con gli eserciti che si combattono le disuguaglianze, non è con le forze di polizia che si ripara alle promesse non mantenute, non è con le rappresaglie che si realizza la giustizia sociale. In quell’occasione, come costantemente in seguito, la politica fu latitante. I nuovi governanti ignoravano del tutto che le vaste province meridionali erano indietro di secoli, che parlavano altre lingue, che erano ben lontane dalle strade maestre del progresso e della civiltà. Non conoscevano il Sud ed hanno continuato ad ignorarne le peculiarità anche in seguito. Cristo si è fermato a Eboli fu pubblicato nell’immediato secondo dopoguerra. Quanti ne intesero la lezione e corsero ai ripari? Il cancro sociale del Meridione oggi è andato in metastasi, diffondendosi sull’intero territorio nazionale, confondendosi col resto del paese, invadendone i gangli vitali. Di che ci si lamenta?

Lo stato unitario finanziò la guerra al brigantaggio con l’oro meridionale a quanto sembra; meglio avrebbe fatto se avesse investito gli stessi denari in infrastrutture, in assetti produttivi, nella formazione di una nuova classe dirigente moderna e competente. Meglio se avesse mantenuto le promesse di Garibaldi o dato una risposta politica agli ideali di Pisacane! Non seppe farlo, non volle, non capì, a dispetto delle istanze provenienti dal meridionalismo più accreditato. I contadini del Mezzogiorno si trovarono sul groppone gli stessi “cappelli” che un tempo li avevano soggiogati, fattisi ancora più arroganti e prepotenti per essersi accortamente schierati col vincitore. «Avevi ragione, papà – afferma Maria – da noi le cose cambiano solo per non cambiare mai». È lo stesso concetto che Tancredi esprime ne Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».

I mutamenti formali, quali quelli ai quali abbiamo assistito per oltre un secolo dopo l’Unità, lasciando inalterate le società meridionali e i rapporti di potere, hanno finito con l’allontanare sempre più il Sud dallo stato unitario. Catozzella narra fatti di un lontano passato, ma fa pensare al presente. Il divario c’è ed è palese ancora oggi. Il Cristo di Carlo Levi, che meglio sarebbe chiamare istruzione di qualità, formazione professionale, cittadinanza attiva e consapevole, ancora non raggiunge vasti strati di popolazione meridionale. Le giovani eccellenze del Sud, che pure esistono e sgomitano per vedere riconosciute le loro qualità intellettuali, culturali e professionali, sono costrette a migrare, al Nord nel migliore dei casi, all’estero per lo più. Chiamano l’evenienza fuga di cervelli. Fuga! Come puoi non scappare da questo paese pachidermico di cialtroni e azzeccagarbugli? C’è da chiedersi come mai la fuga dei nostri uomini e donne migliori poco interessi al ceto politico. Semplice: troppo consapevoli dello sfascio e vittime dell’oscurantismo metodologico italico, probabilmente liberi perché esclusi ed esclusi perché intelligenti, i nostri ragazzi mai eleggerebbero legislatori e governanti ignoranti e corrotti non meno dei funzionari pubblici che ressero le sorti del Meridione fin dai decenni postrisorgimentali. Andate a verificare, uno per uno, chi sono, oggi, i funzionari pubblici che rendono un inferno le nostre vite, per incompetenza, ovviamente, per ignavia e corporativismo. Non si sono mossi di un passo dalla scartoffia. Stanno lì non perché sanno e sanno fare, ma perché portano voti ai loro referenti politici. Ancien Régime! Niente diritti (e doveri) del cittadino, ma rapporti di vassallaggio. Feudalesimo puro! Aggiungeteci campanilismo, clanismo e familismo nutricanti sangue e suolo e capirete perché l’Italia è e resta una mera espressione geografica.     

Il ritornello del cambiar tutto perché tutto resti uguale sembra applicabile ad ogni fase della nostra storia nazionale. Chissà se verrà mai il giorno in cui in cui il fatto soppianti la ciancia e la cultura fecondi il giudizio. L’opera di Giuseppe Catozzella, nel complesso, oltre che in questo bel romanzo, la sua età, la sua origine, il suo vissuto sono indizi di speranza e incoraggiamento per gli sfiduciati.



[1] Giuseppe Catozzella, Italiana, Mondadori 2021.

[2] Catozzella riconosce il suo debito al saggio di Peppino Curcio, Ciccilla. La storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva, Pellegrini editore 2010. In appendice al saggio Curcio pubblica il racconto storico inedito di Alexandre Dumas, Pietro Monaco sua moglie Maria Oliverio ed i loro complici tratto dal giornale L’Indipendente, Napoli 1864. Dumas era il direttore di questo giornale.

[3] Eric J. Hobsbawn, I banditi, Einaudi 2002, pp. 17-18.

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